<<...........Si discute
molto su quanto debba rendere il lavoro a chi lo svolge, cioè
quanto il lavoro debba essere retribuito. Si discute meno su quanto
esso debba rendere all' azienda che lo riceve. Eppure le due questioni
sono strettamente connesse tra loro: è difficile ottenere una
retribuzione alta per un lavoro che rende poco all' azienda. Parrebbe
dunque, a prima vista, che i sindacati debbano essere, entro
certi limiti, interessati a favorire tutto quanto stimola il rendimento
dei lavoratori, in modo da creare le condizioni per l' aumento
delle loro retribuzioni. Ma le cose finora non sono andate così. Il
problema nasce dal fatto che è sovente impossibile distinguere quanto incida sul rendimento del lavoro di una persona il suo
impegno e spirito di iniziativa, quanto la sua capacità professionale, quanto l' organizzazione aziendale in cui essa è inserita, quanto le circostanze
esterne: quelle che non dipendono né da chi
presta il lavoro né da chi lo organizza. Si capisce dunque che il
sindacato - da sempre mobilitato in difesa della sicurezza e dell'
uguaglianza dei lavoratori non solo contro le discriminazioni aziendali,
ma anche contro le avversità del caso, che li dividono in fortunati
e sfortunati - tenda a rendere il loro trattamento e la stabilità
del loro posto insensibili alle differenze di rendimento, così
garantendo all'impresa solo livelli di rendimento
relativamente bassi. Ma si capisce anche che l' impresa tenda, a sua volta, a
stimolare il più possibile l' impegno del lavoratore per ottenerne
un rendimento superiore rispetto a quei bassi livelli. Diversi i livelli di stimolazione del lavoratore nelle aziende private e nel settore pubblico. In quest'ultimo settore, la strategia tradizionale del sindacato
ha raggiunto il massimo successo, col risultato di garantire
l' inamovibilità anche a lavoratori il cui rendimento è nullo o
addirittura negativo........>>.
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